lunedì 15 ottobre 2007
Beh c'è poco da dire, un po' il lavoro, un po' lo scazzo, un po' boh... beh il blog è rimasto a far polvere per l'ennesima volta!
Non cerco giustificazioni, non ce ne sono, ma la mia "ex" Wonderwall si sarebbe offesa e non mi avrebbe parlato per un bel po'. A ragione dopotutto.
Rimane però la positività dell'aver sorvolato questo angolo di web. Il che significa due cose. Innanzitutto ho meno tempo libero da passare davanti al pc. E questo per un nerd della mia portata è già un evento.
E significa che non ho sentito la spinta, la voglia, di venire qui a sfogarmi, a gridare parole scritte di sconforto, di solitudine.
No, non sono guarito. E no, la solitudine è un abito che difficilmente tolgo di dosso, un po' come le sottovesti delle imbacuccate donnone medievali. Però questa solitudine ha cambiato un po' volto e, dopotutto, non mi disturba. O quantomeno non mi spaventa, come qualche anno fa.
Riflettevo alcuni giorni fa sulla vita che "noi giovani" facciamo, o quantomeno quella che facciamo noi "giovani lavoratori", stanchi inseguitori di una carriera che sacrifica tutti (e dico tutti) i valori che fino al giorno prima ci hanno cresciuto.
Una su tutte la libertà. A volte mi trincero dietro l'illusione della "libertà economica" (la stessa che ben presto mi farà uscire di casa per andare a vivere da solo) ma, diciamocelo, era meglio quando mamma e papà ci allungavano i soldi per il gelato, e ce lo andavamo a prendere senza altro a cui pensare che i gusti da metterci sopra.
Una vita che in breve si rivela abbastanza solitaria, o quantomeno costruita sulla dualità amico/collega. Il primo che ci conosce da una vita, di cui ci fidiamo, con cui si esce e ci si diverte. Il secondo come una "new entry", con i suoi giri, le sue "pare", i suoi problemi ma che -un po' come a scuola- è il tuo compagno di banco e di ansie lavorative.
In un batter d'occhio ti trovi a lottare con il cartellino e l'ora di punta per raggiungere in tempo un aperitivo, o rispondere in ritardo ad un semplice sms in cui (di martedì) ti invitano a ballare, inviando la solita deprimente risposta.
Contemporaneamente ti trovi inserito in un microcosmo autonomo, diverso, e molto più eterogeneo. Entri in ufficio e hai a che fare con madri e padri di famiglia. Con zitelle isteriche e gay spudorati. Con anziani lottatori e giovani sottomessi stagisti.
Tra tutte queste categorie, trovo insolito (quasi inquietante) scoprire come i miei coetanei, poco più che neoassunti come me, abbiano un comportamento "adeguato alla massa", distaccato e a volte molto meno accomodante di colleghi più anziani che -di norma- potrebbero imporre un maggiore rispetto.
Quelle persone, quei ragazzi della mia età, solo qualche tempo fa erano all'università, e non si facevano scrupoli a rivolgerti la parola, fare due battute. Ridere su un prof o una disavventura a lezione.
Oggi li vedi in ufficio, vestiti meglio. Forse più impostati. Forse più invecchiati.
In ascensore il saluto non si nega mai, ma una battuta, un sorriso. Quella voglia di socializzare, di scherzare insieme, dove finisce?
A scuola prima della campanella si faceva casino, e al cambio d'ora uguale. Perché in ufficio durante la pausa pranzo tocca mantenere questo contegno, questo necessario "aplomb" professionale? Per fare carriera? Per non sembrare da meno rispetto ai colleghi più anziani?
La risposta è sì. Mi guardo dentro e scopro che andare in ufficio ci toglie la libertà di fare casino con i nostri coetanei, di pensare a divertirci come un tempo, o quantomeno a fare due battute in ascensore come se fosse l'ingresso dell'aula magna. E quei colleghi di lavoro, se conosciuti in un altro contesto, in un altro momento, potrebbero essere amici di infinite scorribande. Di romantici aperitivi o languidi sguardi a lume di candela.
La verità è che a scuola si va un po' per imparare, un po' per fare casino.
In ufficio si va per lavorare, per produrre e per fare carriera.
Poi arriva una mattina in cui, tra mille impegni, alzi gli occhi per guardarti intorno.
E scopri che fino al tornello d'uscita sarai in compagnia, e amico, soltanto di te stesso.
Non cerco giustificazioni, non ce ne sono, ma la mia "ex" Wonderwall si sarebbe offesa e non mi avrebbe parlato per un bel po'. A ragione dopotutto.
Rimane però la positività dell'aver sorvolato questo angolo di web. Il che significa due cose. Innanzitutto ho meno tempo libero da passare davanti al pc. E questo per un nerd della mia portata è già un evento.
E significa che non ho sentito la spinta, la voglia, di venire qui a sfogarmi, a gridare parole scritte di sconforto, di solitudine.
No, non sono guarito. E no, la solitudine è un abito che difficilmente tolgo di dosso, un po' come le sottovesti delle imbacuccate donnone medievali. Però questa solitudine ha cambiato un po' volto e, dopotutto, non mi disturba. O quantomeno non mi spaventa, come qualche anno fa.
Riflettevo alcuni giorni fa sulla vita che "noi giovani" facciamo, o quantomeno quella che facciamo noi "giovani lavoratori", stanchi inseguitori di una carriera che sacrifica tutti (e dico tutti) i valori che fino al giorno prima ci hanno cresciuto.
Una su tutte la libertà. A volte mi trincero dietro l'illusione della "libertà economica" (la stessa che ben presto mi farà uscire di casa per andare a vivere da solo) ma, diciamocelo, era meglio quando mamma e papà ci allungavano i soldi per il gelato, e ce lo andavamo a prendere senza altro a cui pensare che i gusti da metterci sopra.
Una vita che in breve si rivela abbastanza solitaria, o quantomeno costruita sulla dualità amico/collega. Il primo che ci conosce da una vita, di cui ci fidiamo, con cui si esce e ci si diverte. Il secondo come una "new entry", con i suoi giri, le sue "pare", i suoi problemi ma che -un po' come a scuola- è il tuo compagno di banco e di ansie lavorative.
In un batter d'occhio ti trovi a lottare con il cartellino e l'ora di punta per raggiungere in tempo un aperitivo, o rispondere in ritardo ad un semplice sms in cui (di martedì) ti invitano a ballare, inviando la solita deprimente risposta.
Contemporaneamente ti trovi inserito in un microcosmo autonomo, diverso, e molto più eterogeneo. Entri in ufficio e hai a che fare con madri e padri di famiglia. Con zitelle isteriche e gay spudorati. Con anziani lottatori e giovani sottomessi stagisti.
Tra tutte queste categorie, trovo insolito (quasi inquietante) scoprire come i miei coetanei, poco più che neoassunti come me, abbiano un comportamento "adeguato alla massa", distaccato e a volte molto meno accomodante di colleghi più anziani che -di norma- potrebbero imporre un maggiore rispetto.
Quelle persone, quei ragazzi della mia età, solo qualche tempo fa erano all'università, e non si facevano scrupoli a rivolgerti la parola, fare due battute. Ridere su un prof o una disavventura a lezione.
Oggi li vedi in ufficio, vestiti meglio. Forse più impostati. Forse più invecchiati.
In ascensore il saluto non si nega mai, ma una battuta, un sorriso. Quella voglia di socializzare, di scherzare insieme, dove finisce?
A scuola prima della campanella si faceva casino, e al cambio d'ora uguale. Perché in ufficio durante la pausa pranzo tocca mantenere questo contegno, questo necessario "aplomb" professionale? Per fare carriera? Per non sembrare da meno rispetto ai colleghi più anziani?
La risposta è sì. Mi guardo dentro e scopro che andare in ufficio ci toglie la libertà di fare casino con i nostri coetanei, di pensare a divertirci come un tempo, o quantomeno a fare due battute in ascensore come se fosse l'ingresso dell'aula magna. E quei colleghi di lavoro, se conosciuti in un altro contesto, in un altro momento, potrebbero essere amici di infinite scorribande. Di romantici aperitivi o languidi sguardi a lume di candela.
La verità è che a scuola si va un po' per imparare, un po' per fare casino.
In ufficio si va per lavorare, per produrre e per fare carriera.
Poi arriva una mattina in cui, tra mille impegni, alzi gli occhi per guardarti intorno.
E scopri che fino al tornello d'uscita sarai in compagnia, e amico, soltanto di te stesso.
posted by Stefano at 00:16
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